Italiani popolo di santi, poeti e… imprenditori

C’è un detto che resiste al tempo, sedimentato nella coscienza collettiva: “Italiani popolo di santi, poeti e navigatori”. Un’espressione che suona come un tributo all’estro creativo, alla spiritualità e al coraggio d’esplorazione che hanno segnato la nostra storia. Ma oggi, in un Paese sempre più interconnesso e in piena trasformazione, è tempo di aggiungere una nuova figura a questo ritratto collettivo: quella dell’imprenditore.

Sì, perché l’imprenditoria, troppo spesso relegata a una mera questione economica, è diventata anch’essa un’espressione creativa e coraggiosa. In un presente che corre, dove le idee viaggiano in tempo reale e i confini tra settori, mestieri e continenti si fanno sempre più sottili, fare impresa significa assumersi una responsabilità culturale, sociale e generazionale. È un atto non troppo diverso da quello del poeta o dell’artista, ma con una differenza: oltre alla visione, l’imprenditore deve costruire una macchina che funzioni, resista e cresca nel tempo.

L’Italia ha un DNA imprenditoriale radicato nella sua storia. Dai mercanti delle Repubbliche Marinare ai maestri artigiani del Rinascimento, dai grandi industriali del Novecento ai founder delle startup odierne, il filo conduttore è sempre lo stesso: trasformare l’intuizione in valore, l’idea in sistema, il genio in prodotto.

Pensiamo a Enzo Ferrari, che ha fatto correre il nome dell’Italia sulle piste di tutto il mondo. Ad Adriano Olivetti, che negli anni ’50 immaginava un’impresa capace di migliorare la società, ben prima che si parlasse di welfare aziendale.

A Leonardo Del Vecchio, che costruì un impero rendendo gli occhiali un simbolo di stile globale. A Gianni Agnelli, volto carismatico di un’Italia industriale ambiziosa, capace di influenzare politica, economia e costume. A Silvio Berlusconi, che con le sue televisioni ha rivoluzionato la comunicazione e l’editoria, cambiando il modo di intendere l’intrattenimento e l’informazione.

Nella società ipertecnologica di oggi, l’imprenditore diventa un nuovo “navigatore”: attraversa territori inesplorati come l’intelligenza artificiale, l’economia green ed è costretto a reinventarsi continuamente, a studiare, a sbagliare e a ripartire. Non è un caso se il linguaggio del business si è ibridato con quello del design, della comunicazione, della filosofia.

Ma soprattutto, oggi l’impresa è diventata una narrazione collettiva. Un luogo dove si costruiscono identità, si formano giovani, si creano comunità. Dove si impara a gestire la complessità, ad affrontare l’incertezza, a bilanciare libertà individuale e impatto sociale. L’impresa italiana, che sia un colosso quotato in borsa o una bottega digitale, è spesso il primo punto di contatto tra tradizione e futuro.

C’è poi un’altra evidenza che non possiamo ignorare. In un tempo in cui il lavoro è sempre più precario, frammentato e dematerializzato, sempre più giovani italiani scelgono di mettersi in proprio, spinti non solo dal bisogno ma anche da un desiderio di autodeterminazione. Startup, progetti digitali, cooperative culturali, imprese sociali: la nuova imprenditoria non ha confini netti, non risponde a un modello unico, ma ha una cosa in comune con quella dei grandi del passato. Nasce da un’urgenza: quella di fare, creare, lasciare un segno. Nel solco di chi li ha preceduti.

Ed è proprio qui che l’elemento dell’identità italiana, trova la sua legittimità. Perché se il poeta interpreta il presente, il santo lo trascende e il navigatore lo attraversa, l’imprenditore lo costruisce. Con le sue scelte, le sue alleanze, le sue idee che diventano posti di lavoro, prodotti, soluzioni e, in fondo, anche delle belle storie da tramandare.

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