Politiche attive e disuguaglianze territoriali: una prospettiva sociale

Le politiche attive del lavoro in Italia rappresentano uno strumento essenziale per affrontare il problema della disoccupazione e favorire l’inclusione sociale, ma la loro applicazione pratica spesso evidenzia delle criticità. Questi interventi, come la formazione professionale, l’accompagnamento verso un’occupazione e i tirocini, sono gestiti in larga parte dai Centri per l’Impiego (CPI), la cui efficienza è tuttavia messa in discussione. Un esempio emblematico di questa difficoltà è il basso tasso di successo nell’aiutare i disoccupati a trovare lavoro: meno del 3% degli utenti dei CPI in Italia riesce effettivamente a ottenere un impiego tramite questi centri, un risultato significativamente inferiore rispetto ad altri paesi europei, come la Germania, dove i Jobcenter presentano tassi di collocamento più alti grazie a un sistema più personalizzato e una migliore integrazione con le imprese locali.

Dal punto di vista sociologico, questo limite rappresenta una forma di riproduzione delle disuguaglianze sociali. Ad esempio, nelle regioni del Sud Italia, dove il mercato del lavoro è più debole e il tasso di disoccupazione è storicamente più alto, l’inefficienza dei CPI si traduce in una maggiore difficoltà per i giovani e i disoccupati di lunga durata a reinserirsi nel mondo del lavoro. Qui si osserva una forma di “discriminazione territoriale”, dove la qualità dei servizi offerti dipende molto dalla regione in cui ci si trova. La Calabria, ad esempio, spesso fatica a implementare programmi di formazione avanzata per i lavoratori, mentre regioni come la Lombardia offrono maggiori risorse e supporto grazie a una migliore dotazione di infrastrutture digitali e personale qualificato.

Dal punto di vista economico, la segmentazione del mercato del lavoro in Italia è particolarmente evidente in contesti industriali. Prendiamo come esempio il settore manifatturiero del Nord-Est, dove le imprese richiedono lavoratori con competenze tecniche specifiche, ma spesso non riescono a trovarli attraverso i CPI. Questa disconnessione fra domanda e offerta è dovuta alla scarsa personalizzazione dei servizi e alla mancanza di profili formativi adeguati. A questo proposito, un caso interessante riguarda le iniziative private, come quelle promosse da grandi aziende come Luxottica o Ferrari, che spesso creano percorsi formativi interni per colmare questo vuoto, bypassando i CPI e collaborando direttamente con istituti tecnici e università per formare i lavoratori con le competenze necessarie.

A livello nazionale, sebbene riforme come il Jobs Act abbiano cercato di modernizzare il sistema delle politiche attive, molti dei benefici si sono concentrati nelle regioni più sviluppate, dove esistono già risorse per l’integrazione di strumenti digitali avanzati. Nel caso del Programma GOL, pensato per migliorare l’occupabilità dei disoccupati attraverso percorsi personalizzati di formazione e accompagnamento, gli effetti positivi si sono manifestati soprattutto nelle aree urbane del Centro-Nord, come Milano e Bologna, dove l’infrastruttura digitale e la collaborazione tra pubblico e privato sono più consolidate. Al contrario, in aree come la Sicilia, la frammentazione burocratica e la scarsa digitalizzazione dei CPI hanno ridotto l’impatto del programma, limitando l’accesso a servizi efficaci per la popolazione locale. Un’altra problematica emerge quando si osservano le imprese, che spesso lamentano la mancanza di lavoratori qualificati nonostante la presenza di disoccupati. Ad esempio, molte aziende nel settore tecnologico faticano a trovare personale con competenze digitali, eppure nei CPI mancano percorsi di formazione orientati a soddisfare questa domanda. In risposta, alcune aziende hanno iniziato a offrire corsi di formazione direttamente ai disoccupati, creando così una rete di reclutamento parallela a quella istituzionale, come accade per realtà come Accenture o Cisco, che collaborano con startup e incubatori per formare i giovani direttamente sul campo. Per migliorare l’efficacia delle politiche attive, è necessario rafforzare l’interazione tra CPI e imprese, incrementando le risorse umane e investendo in percorsi di formazione più adatti alle esigenze del mercato. Un modello esemplare può essere quello dei Paesi Bassi, dove i servizi pubblici per l’impiego lavorano a stretto contatto con il settore privato per monitorare continuamente le necessità del mercato del lavoro. In Italia, questo approccio potrebbe ridurre il gap tra domanda e offerta, aumentando il tasso di collocamento e offrendo soluzioni più personalizzate.

Un altro passo cruciale riguarda la semplificazione burocratica. Un esempio significativo è rappresentato dalla Svezia, dove le procedure per accedere ai servizi di collocamento sono state notevolmente semplificate grazie a una forte digitalizzazione del sistema. In Italia, processi lunghi e complessi scoraggiano molti disoccupati dall’utilizzare i servizi dei CPI, riducendo ulteriormente la loro efficacia. Puntare sulla digitalizzazione e sulla formazione continua degli operatori, come avviene in alcuni paesi nordici, potrebbe ridurre i tempi di attesa e migliorare la qualità dei servizi offerti anche nelle regioni meno sviluppate. Solo con un approccio più integrato e mirato, che superi la frammentazione territoriale e burocratica, sarà possibile rendere le politiche attive del lavoro in Italia più efficaci e capaci di rispondere alle sfide del mercato del lavoro contemporaneo.

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