C’è stato un tempo in cui parlare di “capitale umano” significava usare il linguaggio freddo dell’economia quantitativa. Era il periodo in cui l’istruzione veniva trattata come un investimento, alla stregua di un bene strumentale. Negli Stati Uniti degli anni Sessanta, studiosi come Gary Becker e Theodore Schultz dimostravano con modelli econometrici che più si investiva nelle competenze, maggiore sarebbe stato il ritorno in termini di produttività. Era l’epoca del boom industriale avanzato, del mantra “più scuola, più PIL”.
Sessant’anni dopo, quel mantra è ancora lì, ma il mondo intorno è completamente cambiato. Oggi non basta più essere istruiti, bisogna essere adattabili. Il capitale umano non è più un concetto da convegno accademico o un grafico nei report macroeconomici: è diventato una necessità concreta, quotidiana. Un’urgenza per le imprese, una priorità per i territori, una questione strategica per i Paesi. La differenza è netta: il punto non è più quante lauree sforniamo, ma quante competenze riusciamo a generare, aggiornare, rendere spendibili e trattenere nei nostri ecosistemi economici.
Il cuore della nuova competizione globale è il talento. E la realtà, specie in Italia, è sotto gli occhi di tutti: la carenza di profili tecnici, digitali e manageriali è ormai un limite strutturale allo sviluppo. Non parliamo più solo di un disallineamento tra scuola e lavoro, ma di un vero e proprio freno alla crescita. Le imprese hanno bisogno di figure capaci di muoversi con naturalezza tra nuove tecnologie e intelligenza emotiva, tra visione e operatività. Non si cercano più solo competenze, ma persone che sappiano imparare in fretta, adattarsi, risolvere, mettersi in gioco, orientarsi nel cambiamento.

Alcune imprese hanno già colto questa trasformazione e hanno ripensato radicalmente le proprie strategie, investendo nella formazione continua, nel potenziamento delle risorse interne, nel riconoscimento del valore delle competenze informali e trasversali. Anche alcune università stanno percorrendo strade nuove, costruendo percorsi più aderenti alla realtà professionale, aprendo a collaborazioni con il mondo produttivo, superando il modello del titolo fine a sé stesso. E ci sono territori che si stanno attrezzando con sistemi formativi integrati, con academy ibride, percorsi orientativi seri e progetti condivisi tra pubblico e privato.
Ma c’è ancora chi resta fermo, ancorato a convinzioni vecchie, convinto che la formazione sia un costo da tagliare, che i giovani non abbiano voglia di lavorare, che basti offrire uno stipendio per costruire una squadra. Chi ragiona così difficilmente sopravvivrà al decennio.
Un tempo il capitale umano si misurava con il numero di anni passati tra i banchi. Oggi serve una nuova metrica. Conta la capacità di imparare rapidamente, di mettersi in discussione, di muoversi tra saperi diversi e contesti incrociati. Conta l’agilità nel pensiero, la padronanza degli strumenti digitali, la voglia di collaborare, l’attitudine imprenditoriale. Non è più una questione di titoli, ma di valore in evoluzione, di crescita continua, di esperienza e riflessione.
E tutto questo impone una ridefinizione anche del ruolo delle istituzioni. Non servono più solo regole o finanziamenti a pioggia, serve la capacità di abilitare, di costruire ponti tra scuola e impresa, tra formazione e occupazione. Bisogna smettere di ragionare per compartimenti stagni: la scuola non può essere una linea retta con una sola direzione, ma un sistema aperto, flessibile, permeabile. Le aziende devono entrare nei licei, raccontare il lavoro che cambia. I sindacati devono occuparsi anche di competenze, non solo di contratti. Le Regioni devono finanziare l’orientamento come si finanziano le infrastrutture, perché anche questo è sviluppo.
Il capitale umano va pensato come una grande infrastruttura immateriale: non si vede, ma collega, abilita, accelera. Senza competenze, le migliori tecnologie restano ferme. Senza talenti, gli investimenti non creano impatto. Senza persone preparate, non c’è crescita che tenga.
In un mondo dove tutto – tecnologia, informazione, denaro – è replicabile e accessibile, l’unica vera risorsa non clonabile resta il talento. E non parliamo solo dei vertici o delle eccellenze: ogni figura aziendale, se valorizzata, può fare la differenza. Ogni ruolo può diventare strategico, se inserito in un contesto che lo fa crescere. E allora la domanda che ogni imprenditore, manager o dirigente dovrebbe porsi è molto semplice: sto gestendo le persone come un costo da contenere o come un capitale da coltivare? Perché la risposta a questa domanda farà la differenza tra chi sarà ancora competitivo nel 2030… e chi sarà già fuori dai giochi.
