La formazione come processo di onboarding aziendale

Oggi molte aziende parlano di onboarding, ma poche lo praticano davvero. Spesso si riduce tutto a un kit di benvenuto, a una manciata di slide, a qualche email di presentazione e alla scrivania già pronta. Nulla di male, per carità. Ma questo non basta a costruire una relazione solida e duratura tra il lavoratore e l’azienda. Perché entrare in azienda non è un gesto burocratico, è un passaggio umano, psicologico, professionale. È l’inizio di una trasformazione che riguarda entrambe le parti: chi entra e chi accoglie. In qualità di formatore, docente e consulente che ha lavorato con aziende, dipendenti, neoassunti e persone in cerca di un nuovo inizio, mi sono spesso trovato davanti a un vuoto. Un vuoto di progettualità, di accompagnamento, di senso. Troppe volte l’onboarding è stato trattato come un momento, quando invece dovrebbe essere un processo. Un percorso strutturato e formativo che aiuti la persona a leggere l’azienda, e l’azienda a riscoprirsi attraverso le sue persone. Parlare di formazione nel contesto dell’onboarding non significa solo fornire competenze tecniche. Significa lavorare sull’identità professionale, sul posizionamento relazionale, sul senso di appartenenza. Quando un’azienda forma, accompagna. Quando forma bene, genera cultura. Formare significa investire nella crescita della persona e riconoscere che il lavoro non è solo un contratto, ma un’esperienza che occupa la parte più significativa del nostro tempo quotidiano. E se è vero che le persone passano la maggior parte delle loro giornate al lavoro, allora quel tempo deve migliorare – sia sotto il profilo professionale che sotto quello umano.

È in questa direzione che la formazione può diventare una leva evolutiva, tanto per il lavoratore quanto per l’organizzazione. Un altro aspetto che ritengo centrale è il ruolo che le aziende dovrebbero avere nel sistema educativo. In un mondo in cui chi insegna ha spesso anche ruoli attivi, operativi e decisionali nelle imprese, ha ancora senso parlare in termini rigidi di domanda e offerta di lavoro? Secondo me sì, ma serve una nuova consapevolezza. Le aziende devono entrare nelle scuole, non solo come sponsor o testimonial, ma come partner progettuali. Le esperienze di campus condivisi, i percorsi formativi congiunti tra università e imprese, sono semi importanti. Vanno coltivati, non lasciati a iniziative isolate. Bisogna favorire l’ibridazione tra sapere teorico e sapere pratico, tra docenza e imprenditoria, tra aula e reparto. Non possiamo però tacere le criticità. Negli ultimi anni ho assistito a molteplici casi di alternanza scuola-lavoro, soprattutto in contesti produttivi, tecnici e industriali, dove i giovani sono stati inseriti in realtà aziendali senza una vera formazione iniziale, senza un tutoraggio competente, senza una cornice di sicurezza reale. Studenti troppo giovani, non pronti ad affrontare dinamiche interne complesse, si sono trovati in difficoltà. In alcuni casi si sono verificati anche incidenti gravi. È qui che il sistema ha mostrato tutti i suoi limiti: trattare l’inserimento come un’esperienza estemporanea, senza un vero onboarding, senza un patto educativo condiviso tra scuola e impresa, è un errore che non possiamo più permetterci. Serve un cambiamento culturale. Serve una progettazione seria. Serve formazione, vera formazione, prima di mettere i ragazzi in azienda.

Secondo il Rapporto INAPP 2023, oltre il 65% degli under 30 ritiene importante lavorare in un’azienda coerente con i propri valori personali, mentre tra gli over 55 la percentuale scende al 34%. Non è disimpegno: è un nuovo modo di concepire il lavoro come parte della propria identità, e non come sacrificio necessario.

Le differenze non si limitano alla sfera valoriale. Cambiano anche le abitudini, i comportamenti e il rapporto con il tempoÈ in questa direzione che la formazione può diventare una leva evolutiva, tanto per il lavoratore quanto per l’organizzazione. Un altro aspetto che ritengo centrale è il ruolo che le aziende dovrebbero avere nel sistema educativo. In un mondo in cui chi insegna ha spesso anche ruoli attivi, operativi e decisionali nelle imprese, ha ancora senso parlare in termini rigidi di domanda e offerta di lavoro? Secondo me sì, ma serve una nuova consapevolezza.

Le aziende devono entrare nelle scuole, non solo come sponsor o testimonial, ma come partner progettuali. Le esperienze di campus condivisi, i percorsi formativi congiunti tra università e imprese, sono semi importanti. Vanno coltivati, non lasciati a iniziative isolate. Bisogna favorire l’ibridazione tra sapere teorico e sapere pratico, tra docenza e imprenditoria, tra aula e reparto.

Non possiamo però tacere le criticità. Negli ultimi anni ho assistito a molteplici casi di alternanza scuola-lavoro, soprattutto in contesti produttivi, tecnici e industriali, dove i giovani sono stati inseriti in realtà aziendali senza una vera formazione iniziale, senza un tutoraggio competente, senza una cornice di sicurezza reale. Studenti troppo giovani, non pronti ad affrontare dinamiche interne complesse, si sono trovati in difficoltà. In alcuni casi si sono verificati anche incidenti gravi. È qui che il sistema ha mostrato tutti i suoi limiti: trattare l’inserimento come un’esperienza estemporanea, senza un vero onboarding, senza un patto educativo condiviso tra scuola e impresa, è un errore che non possiamo più permetterci. Serve un cambiamento culturale. Serve una progettazione seria. Serve formazione, vera formazione, prima di mettere i ragazzi in azienda.

La mia visione, maturata sul campo, è che il dipendente sviluppa pienamente la propria identità aziendale quando viene messo nella condizione di evolversi. E l’azienda, di conseguenza, evolve con lui. Le realtà più virtuose sono quelle che non mettono semplicemente al centro le persone, ma pongono al centro l’evoluzione delle persone.

Un’azienda che forma, ascolta. Che forma, cambia. Che forma, si adatta come l’acqua: assume la forma delle competenze che assorbe dalle nuove risorse, ma anche da quelle già presenti, rivalutate e rilanciate. La formazione in questo senso non è un costo, è un catalizzatore di senso. Un moltiplicatore di valore. Il tempo trascorso al lavoro non può essere considerato “neutro”. È tempo di vita, e come tale deve essere qualificato. Una buona formazione aziendale migliora l’ambiente, le relazioni, le aspettative, la visione del proprio ruolo. In un contesto dove il burnout, la demotivazione e l’instabilità lavorativa sono in aumento, offrire percorsi formativi continui e personalizzati diventa anche un gesto di responsabilità sociale. La formazione è oggi l’unico vero strumento trasversale capace di tenere insieme esigenze diverse: produttività e benessere, efficienza e umanità, crescita economica e crescita personale. È il ponte tra la direzione aziendale e i dipendenti. Tra la strategia e le persone.

L’onboarding aziendale non può esaurirsi in un momento iniziale. Deve diventare un processo continuo, in cui ogni passaggio – dall’ingresso alla crescita interna – sia accompagnato da formazione, ascolto, relazione. Solo così le aziende potranno essere realmente inclusive, dinamiche e capaci di valorizzare le proprie risorse. Solo così i dipendenti potranno sentirsi non “incastrati” in un’organizzazione, ma parte attiva della sua evoluzione. Formare, oggi, significa trasformare. Le aziende che avranno il coraggio di investire in questo cambiamento saranno quelle che guideranno il futuro del lavoro, in modo più consapevole, più umano, più giusto.

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